AL FIANCO DELLE DONNE TURCHE



redazione
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Le minacce alla Convenzione di Istanbul riguardano anche noi.  Ci spiega perché Silvia di Non Una di Meno Milano  

Lo scorso 1° luglio la Turchia è ufficialmente uscita dalla Convenzione di Istanbul per prevenire e contrastare la violenza. Cosa comporta questa scelta per le donne turche? Qual è stata la loro reazione e come hanno reagito le donne di altri paesi? 

Per le donne turche e per le soggettività LGBTQIA+ l’uscita dalla Convenzione significa avere ancora meno tutele rispetto alla violenza di genere subita. Ricordiamo che in Turchia muore circa una donna al giorno per mano di un uomo a lei vicino (marito, compagno, fidanzato, ex, padre o figlio), per cui la situazione è molto grave. Le donne turche sono scese in piazza per la prima volta in difesa della Convenzione di Istanbul lo scorso 21 marzo, a poche ore dalla nefasta decisione di Erdogan, e sono scese nuovamente in piazza l’1° luglio. Le attiviste turche hanno chiesto solidarietà internazionale e, attraverso la rete E.A.S.T. (Essential Autonomous Struggles Transnational), sono state organizzate manifestazioni a loro supporto in Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Grecia, Francia, Germania, Regno Unito, Argentina e Italia. 

Qual è la rilevanza per l’Italia e il resto d’Europa della decisione della Turchia, considerando tra l’altro il progressivo restringimento della sfera delle libertà fondamentali di donne e persone LGBTQI+ in corso in vari paesi europei? 

L’uscita della Turchia apre la strada ad altre possibili uscite. La Polonia, per esempio, sta valutando di abbandonare la Convenzione di Istanbul a favore di una nuova Convenzione che abbia come nucleo centrale la tutela della famiglia e vorrebbe coinvolgere altri paesi dell’ex blocco sovietico in questo progetto. Ricordiamo che Bulgaria, Lettonia, Lituania, Repubblica ceca, Repubblica slovacca, Repubblica moldava, Ucraina e Ungheria hanno firmato, ma non hanno mai ratificato, la Convenzione. In Bulgaria, addirittura, è stata dichiarata incostituzionale. In generale, dai gruppi ultraconservatori dell’Est Europa, che sono collegati tra loro ma anche ai gruppi di estrema destra in Italia, è partito un attacco ideologico alla Convenzione, secondo cui lo strumento del Consiglio d’Europa mira ad indebolire la famiglia, ad incentivare i divorzi e a promuovere i diritti delle persone LGBTQIA+. Preservare l’unità della famiglia a tutti i costi significa tollerare la sottomissione e la violenza subita dalle donne all’interno della famiglia. La Convenzione tutela i diritti umani delle donne, non l’unità familiare, e dunque risulta essere un testo scomodo per tutti i sostenitori della famiglia tradizionale. L’altro punto che non viene accettato è la definizione di genere come costrutto sociale con un duplice obiettivo: il primo è di non riconoscere l’esistenza di soggettività non binarie e trans, il secondo è di tornare a naturalizzare i generi in una prospettiva binaria (uomini e donne) e ad assegnare “per natura” alle donne il destino di madri.  

A che punto siamo in Italia con l’applicazione della Convenzione di Istanbul? Quali sono secondo voi le azioni prioritarie che le istituzioni italiane devono mettere in agenda subito? 

Come evidenzia il rapporto sull’Italia pubblicato nel 2020 dal GREVIO, organismo indipendente del Consiglio d’Europa incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione nei paesi che l’hanno ratificata (l’Italia l’ha fatto con la legge n. 77/2013), il nostro Paese risulta inadempiente rispetto a tutti i quattro pilastri di intervento previsti dalla Convenzione: 1. protezione delle donne che hanno subito violenza, per via della vittimizzazione secondaria ad opera di media e istituzioni e per l’obbligo della denuncia; 2. procedimento contro i colpevoli, perché al di là delle normative esistenti, che sono di facciata, vi è un problema notevole di applicazioni delle leggi in sede penale, ma soprattutto civile; 3. prevenzione, che risulta totalmente assente nelle scuole e in tutti gli organi preposti alla formazione professionale; 4. politiche integrate, volte a rimuovere le disuguaglianze di genere presenti in società, che sono la radice prima della violenza di genere. Per Non Una Di Meno gli interventi prioritari sono: 1. garantire un adeguato finanziamento dei centri antiviolenza, ad oggi del tutto insufficiente; 2. fornire sostegno economico alle vittime di violenza per poter uscire dalle situazioni di violenza anche attraverso l’autonomia economica; 3. svincolare dalla presentazione della denuncia il rilascio del permesso di soggiorno per le donne immigrate ai sensi dell’art. 18 bis del T.U. sull’immigrazione per disincentivare il loro permanere in relazioni abusanti e, più in generale, modificare l’attuale gestione emergenziale e securitaria dell’immigrazione; 4. attivare interventi diffusi e strutturali di prevenzione, ossia di educazione sessuale e affettiva ed educazione alle questioni di genere e contro la violenza di genere nelle scuole di ogni ordine e grado. 

È certamente fondamentale che le istituzioni facciano la loro parte, ma intanto cosa ognun* di noi può fare? Sia singolarmente che con la propria comunità, con il quartiere, con le associazioni di cui si fa parte, nelle scuole che frequentano i/le nostr* figl* o nel parchetto in cui andiamo a correre? 

Purtroppo, viviamo in una società molto individualista, incentivata e promossa dal capitalismo neoliberista: questo vuol dire che ognun* pensa soltanto al proprio orticello (famiglia, casa, lavoro, cose di sua proprietà) senza curarsi ed occuparsi della dimensione collettiva e dimenticandosi che l’essere umano non è una monade, bensì è strettamente connesso con altri esseri viventi e con l’ambiente che lo circonda. La cultura politica e la consapevolezza dei diritti conquistati nel tempo è molto poco diffusa in Italia oggi e questo crea il terreno ideale per la sottrazione e la perdita di diritti e tutele. Occorre tornare a praticare la politica dal basso (ossia in tutti i luoghi che si attraversano), coltivare le relazioni al di fuori dei legami di sangue e lottare per difendere i diritti ancora esistenti e per conquistarne di nuovi. Purtroppo, nella storia nessun diritto è stato regalato da chi deteneva il potere e privilegi: tutto è stato conquistato attraverso lotte collettive.  

ActionAid si occupa da anni di empowerment socio-economico delle donne che hanno subito violenza nella convinzione che l’indipendenza economica sia una delle vie d’uscita dalla violenza, anche in linea con quanto richiesto dalla Convenzione di Istanbul. Le misure attualmente in vigore sul tema sono secondo voi adeguate a sostenere l’indipendenza delle donne? Quali altre misure proponete voi al riguardo? 

Le misure economiche in Italia sono del tutto insufficienti sia per quanto riguarda il sostegno alle vittime di violenza e ai centri antiviolenza che lavorano in prima linea, sia per quanto riguarda la rimozione delle disuguaglianze economiche in società. L’Italia pensa di poter risolvere una storia millenaria di sottomissione delle donne senza investire mezzo euro. I soldi sono il nodo più cruciale di tutti: da chi sono gestiti, per quali fini e soprattutto a vantaggio di chi? La risposta, purtroppo, è scontata. NUDM chiede un reddito di autodeterminazione per le donne che sono nei percorsi di uscita dalla violenza, così come per qualsiasi essere umano, come forma di redistribuzione della ricchezza, per garantire un’esistenza dignitosa e per prevenire lo sfruttamento economico. Nessuna persona accetterà più un lavoro in nero o un salario da fame, se potrà contare su un reddito minimo garantito. Solo in una società che tutela chi è più vulnerabile, tutt* potranno sentirsi davvero al sicuro. 

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